L’immigrazione. Una sfida importante

Pubblicato su Libertà di educazione, n. 2/3 [2000], pp. 67-69.

Il tema della immigrazione si è imposto con particolare forza nel mondo occidentale dagli anni Ottanta. Tuttavia mancano ancora, a nostro avviso, delle analisi adeguate del fenomeno, che viene affrontato, in un senso o nell’altro, affidandosi a una certa umoralità o a esclusivi calcoli economici. Qualsiasi fenomeno però, e tanto più se di proporzioni imponenti, merita invece di essere anzitutto capito, e successivamente valutato. Dunque prima di tutto vogliamo dire qualcosa sulle cause del fenomeno migratorio di fine millennio, per passare poi ad una sua valutazione.

Cause

Potremmo formulare per i rapporti tra i popoli una legge simile a quella dei vasi comunicanti: tra popoli si tende a istituire un equilibrio, per cui da spazi meno ricchi i popoli tendono a passare verso spazi più ricchi, sempre che, come nel caso di vasi comunicanti, non si frappongano barriere (come una parete di vetro).

Questa legge la vediamo alla base di molti movimenti migratori. Il caso forse più noto è quello delle “invasioni barbariche”, che interessarono l’Impero Romano d’Occidente nella sua fase finale. I Germani erano attratti dalle migliori condizioni di vita presenti nel bacino mediterraneo. Ma potrebbe essere portato anche il caso degli Arabi, dalla desertica e inospitale penisola arabica attratti verso terre più prospere, o il caso dei Mongoli, anche loro mossisi dalle lande desertiche dell’Asia centrale verso le terre ricche e fertili della Cina. Qualcosa di simile deve essere accaduto anche nei primordi della presenza umana sulla Terra, allorchè dal ristretto gruppo originario di umani, da cui recenti scoperte genetiche (in ciò perfettamente collimanti col dogma cristiano) deriverebbe l’intero genere umano, collocandone la sede probabile in Africa, si staccarono gruppi in cerca di condizioni di vita migliori. Certo in tutti i fenomeni migratori premoderni la migrazione assume i caratteri della conquista o della colonizzazione; nel caso invece delle migrazioni moderne, dall’Ottocento in qui, si assiste a uno spostamento di “masse umane” che in qualche modo chiedono più o meno umilmente ospitalità, costituendosi come manodopera per lo più disponibile a lavori poco apprezzati.


1. Anche nel caso presente il primo dato oggettivo è il dislivello tra i due “vasi”, la disparità economica tra Paesi ricchi e Paesi poveri.

1a. C’è il troppo pieno dei paesi poveri, da un lato. Ossia il loro basso livello di sviluppo economico e il loro elevato tasso di espansione demografica. Non si avrebbero fenomeni migratori di massa se non si desse questa condizione di povertà (che a sua volta è da mettersi in relazione di causa con l’alto tasso di incremento demografico). Si obbietterà che il dislivello esisteva in realtà già prima dell'inizio della grande ondata migratoria di fine '900. È vero, però dagli anni Ottanta del '900 ne aumenta la consapevolezza negli abitanti del Sud del Pianeta (si pensi agli effetti della globalizzazione): nei paesi (e nei ceti) più avanzati del Sud povero cresce la alfabetizzazione, e i mezzi di comunicazione di massa fanno conoscere quanto sia più avanzato il tenore di vita del Nord ricco del mondo. Inoltre il debito estero dei paesi poveri ne schiaccia l'economia.

1b. E c’è il troppo vuoto dei paesi ricchi. In effetti il desiderio dei poveri di arricchimento trova un alleato negli stessi paesi ricchi, una parte consistente della cui popolazione vede nell'immigrazione un fenomeno positivo, per due principali motivi. Anzitutto essa risponde a una necessità economica: colmare i vuoti lasciati dal decremento demografico in atto nei paesi ricchi ormai da tempo, in seguito al diffondersi di una mentalità individualistica ed egoistica che vede in una libertà come assenza di legami un valore irrinunciabile; la manodopera immigrata assicura dunque di che reggersi al sistema economico dei paesi ricchi. In secondo luogo, il fenomeno migratorio viene vista come un che di inevitabile, se non altro una sorta di male minore, quale effetto della concentrazione della ricchezza nei soli paesi ricchi, a cui non si vuole rinunciare un po' per egoismo, un po' per timore che i paesi poveri, arricchendosi, costituiscano una minaccia alla pace e all'equilibrio complessivo del Pianeta; e il prezzo da pagare per un tale calcolo è un senso di colpa diffuso e inconfessato, che genera l'accettazione, se non la ricerca, di un fenomeno di cui non possono non intuire i possibili risvolti negativi.


2. Abbiamo detto che due vasi diversamente pieni tendono a ripristinare l’equilibrio: a meno che non si frapponga un impedimento. Per anni questo impedimento c’è stato: il colonialismo prima, poi le difficoltà nei trasporti e nella circolazione delle notizie, come abbiamo accennato, ma soprattutto l’ideologia.

2a. Viene meno l’impedimento culturale nei paesi poveri: l’ideologia. Per il marxismo, molto diffuso nei paesi del Terzo Mondo, africano e asiatico, appena divenuti indipendenti, la società capitalistica non doveva essere vista come una meta agognabile, ma come una società decadente e destinata a crollare. Inutile perciò inseguirne le futili e vane mete. Meglio piuttosto attrezzarsi a rovesciarla, per porre fine alla sopraffazione dei ricchi sui poveri.

Fino agli anni '70 così pensava l’imperante ideologia marxista, il crollo della quale, negli anni Ottanta, apre una fase nuova anche per i fenomeni migratori. Ora il capitalismo non è più demonizzato, si tratta di una situazione con cui fare i conti, senza disprezzare la possibilità di arricchirsi. Diventare ricchi è ormai visto da molti come preferibile all'abbattimento rivoluzionario dell'ingiustizia sociale. Verso la ricchezza dei paesi capitalisti, non più demonizzata, si può perciò ora accorrere, tanto più che, dalla fine degli anni '80, cadono anche i vincoli pratici (dei regimi polizieschi di stampo comunista) che frenavano l'esodo verso la ricchezza.

2b. Viene meno l’impedimento culturale nei paesi ricchi: si affermano nichilismo ed economicismo esasperato. Sullo sfondo, culturalmente, il fenomeno migratorio trova una costellazione di idee che cospirano nella medesima direzione. Anzitutto vi è una visione nichilista, che dispera programmaticamente di conoscere la realtà nella sua profondità, e annega nell'immediato e nell'effimero; guardare al domani vale solo per ciò che è "scientificamente" indagabile e misurabile; questo vale anche per il passato: il nichilismo crea una disaffezione alle proprie radici storiche e culturali. È la cultura del ghigno insensato, dell’indifferenza programmatica al valore. In questo clima viene meno la possibilità di percepire il danno che possa venire dalla distruzione di una civiltà. La scienza insegna che nei momenti che precedono l’annegamento, viene da ridere.

Ricordiamo poi l’economicismo, in cui confluiscono tanto ciò che resta della cultura marxista quanto la mentalità delle grandi lobbies economico-finanziarie, porta a una visione dell’uomo in termini di mero homo oeconomicus. Ne segue una grave sottovalutazione del fattore culturale quale costitutivo di una società.

valutazione

Vi sono a nostro parere due atteggiamenti opposti da respingere: l’isteria razzista e la pseudo-solidarietà economicistica.

L’errore del razzismo

Il razzismo deve anzitutto essere definito con precisione. Esso non significa una qualsiasi paura del “diverso”, dello straniero, ma una visione antropologica che discrimina gli esseri umani in ragione del loro codice genetico, in ragione della biologia. Tipico esempio di razzismo è stato l’antisemitismo nazista. Un ulteriore esempio lo possiamo vedere anche nell’ideologia del Ku-Klux Clan. Questa ideologia biologista deve essere ritenuta radicalmente incompatibile con una corretta antropologia, che distingue nell’uomo una componente biologica e una non riducibile alla biologia (cioè l’anima, lo spirito), per cui l'uomo non è esaurientemente definito dal suo DNA. Non occorre insistere sul fatto che il razzismo sia perciò da deprecare con nettezza: la sua nefasta portata è evidenziata anche dalle sue applicazioni storiche, di cui l’Olocausto ebraico è la documentazione più impressionante. Occorre però distinguere dal vero e proprio razzismo tutta una gamma di atteggiamenti di carattere xenofobo, che hanno alla loro base motivazioni di egoismo economico o di incomprensione culturale. La xenofobia è un atteggiamento comunque negativo, ma di    natura meno radicale e perciò meno grave del razzismo: ciò che esso teme non è la razza diversa, ma un diverso stile di vita, una diversa e forse conflittuale scala di valori, capace di sovvertire quella tradizionalmente vigente in un certo territorio.

L’errore del paneconomismo

Simmetrico all’errore del biologismo razzista è quello del paneconomismo materialista. In questa visione, che riunisce, come dicevamo, tanto il pensiero di sinistra quanto quello delle élites del capitalismo, si attua una più o meno totale sottovalutazione della componente identitario-culturale. L’uomo viene definito dalla sua capacità lavorativa (e dalla sua attitudine al consumo): produttore-consumatore. L’istanza di significato ultimo, l’istanza teoretica, quella etica e quella estetica vengono ridotte a insignificanti epifenomeni, al limite gestibili dentro una strategia di tipo economico. Ne deriva una analisi del tutto tranquillizzante: ciò che sta avvenendo è una globalizzazione, che distruggerà le differenze culturali e religiose, mettendo capo ad una società fondata su valori mondiali comuni, finalmente matura e omogenea, priva di quelle tensioni che derivavano appunto dal permanere di identità reciprocamente contrapposte e irriducibili.

Per rendersi conto di quanto questa analisi sia inadeguata si potrebbe considerare come la società multiculturale degli Stati Uniti, dopo due secoli, sia tutt’altro che priva di tensioni e di conflitti di matrice identitaria, segno che l’economia non è sufficiente a fondere culture diverse, non è un fattore che basti a unire davvero gli uomini. Anche la sinistra dovrebbe riflettere su quanto la sottovalutazione del fattore culturale le sia stata nel passato perniciosa. Si pensi alla grave sottovalutazione della specificità culturale del nazismo, allorché le forze di sinistra lo equipararono al liberalismo, in quanto espressione della medesima area economica (capitalistica), ritardando così fatalmente la formazione di un fronte antinazista. O ancora dovrebbero riflettere su quanto superficiale sia stata la “verniciatura” di unità imposta per via economica a molti popoli dell’ex-area comunista, poi in molti casi dilaniatisi in guerre sanguinose (Bosnia, Kossovo, Armenia, Cecenia): ancora una volta l’economia non basta a unire per davvero.

alla ricerca di una difficile soluzione

Il problema della valutazione dell’immigrazione è tutt’altro che facile. Due comunque ci sembrano i capisaldi da tenere fermi: da un lato la fratellanza universale e la comune proprietà della terra da parte dell'umanità nel suo insieme; dall’altro la necessità per l'uomo di vivere delle appartenenze più ristrette di quella universale, quale inevitabile pedagogia all'altrimenti astratto amore per l'umanità;

a) Soprattutto contro le aberrazioni del razzismo e contro isteriche visceralità xenofobe, è bene tenere per fermo che tutti gli uomini sono fratelli, tutti hanno una medesima natura, e dunque una medesima dignità, a prescindere dal colore della pelle o da qualsiasi altro fattore discriminante. Più forte di ogni differenza, è l'identità della natura umana che affratella tutti gli uomini. Accettarlo porta come conseguenza che solo per opportunità contingenti gli esseri umani, raggruppati in "popoli" e "nazioni" si sono suddivise le terre del Pianeta. Insomma, prima che degli Svizzeri, la Svizzera è del genere umano.

b) Contro la faciloneria paneconomicista occorre rimarcare come l’istanza culturale e identitaria non è un orpello arbitrario, ma una esigenza profondamente radicata. L’appartenenza all’umanità totale è immediata nella sua ontologia, ma mediata nella sua pedagogia. Sono legato all’intero genere umano non nonostante, ma mediante delle appartenenze più specifiche. Non è un caso insomma ad esempio che gli esseri umani si siano riuniti in aggregazioni specifiche, ognuna delle quali ha una sua lingua, una cultura, delle usanze. Ciò risponde a un bisogno che è radicato nella natura stessa, e che senza sopprimere la prima dimensione di universalità, la declina in un modo non astratto. Come un nuovo individuo umano non può amare la propria città se non allevato in una famiglia, così gli esseri umani hanno nella patria (piccola e grande) un importante pedagogo che li proietta nell'universalità non prima di averli nutriti della propria tradizione e della propria cultura. Pretendere di azzerare le identità e le appartenenze intermedie per legare immediatamente gli    individui all’umanità si presenta allora come una operazione astratta e violenta. Ciò che ne può derivare, più una pacifica convivenza, è un anomalo mixer costituito da un lato da una massificazione senza precedenti, funzionale agli interessi economici di ristrette élites, e dall’altro da probabili tensioni e conflitti.

il caso islam

Il problema    dell’integrazione degli immigrati presenta un vertice di difficoltà nel caso dei mussulmani. Ormai è noto a tutti quanto questa impostazione religiosa presenti ostacoli a una pacifica convivenza con altre culture e fedi. In una parola, nel DNA dell’Islam vi è l’istanza di far trionfare visibilmente la fede coranica, con mezzi temporali anche violenti. Non occorre insistere sugli esempi: dalla pena capitale prevista a chi abbandona l’Islam, al divieto anche solo di manifestare pubblicamente la fede cristiana in molti paesi mussulmani, alle persecuzioni cruente contro i cristiani in Sudan, nelle Molucche, a Timor Est, in Pakistan, la cronaca di questi anni mostra una pletora di esempi di quanto l’Islam non sia disposto ad accettare un modello pluralista di società[\1].

Anche qui alcuni punti fermi sono facilmente individuabili:


note


[1]Quello che invece stupisce è come una parte dell’opinione pubblica occidentale minimizzi tale aspetto. Si dirà: non è la prima volta, è in fin dei conti la stessa area che minimizzava i crimini di Stalin e di Pol Pot. Tuttavia questa volta, se vincesse l’Islam sarebbero proprio alcune delle più importanti conquiste a cui quell’area tiene (come la parità tra i sessi o come la laicità dello stato) a venir messe in discussione. La spiegazione è dunque altrove: da un lato esiste in quell’area una componente, per quanto minoritaria, di maldigerito anticristianesimo; d’altro lato c’è la sottovalutazione del fattore culturale, di cui parlavamo prima, che fa ritenere facilmente fagocitabile nel sistema occidentale la “diversità” islamica.